NON DI SOLO PANE

Il movimento cooperativo di consumo in Ticino dalle origini al 1920

A cura di
Flavio Poli | 1989 | pp. 80

Prefazione di Orazio Martinetti

Una tensione collettiva per un traguardo comune, una conquista, un simbolo di unione e di fratellanza: l’impresa cooperativa, specialmente nei borghi e nei villaggi di montagna discosti dalle vie di comunicazione, non ha mai assunto un significato esclusivamente commerciale. Ancora oggi, per molti consumatori, soprattutto anziani, la “cooperativa” è una presenza familiare, un’istituzione accanto alla chiesa, al municipio e alle scuole.
Certo: l’ideale cooperativo è sbocciato per rispondere a esigenze materiali impellenti, in primo luogo per rifornire gli associati e la comunità di beni di prima necessità (prodotti locali o coloniali ecc.). E tuttavia non riusciremmo a cogliere appieno lo spirito cooperativo che ha percorso e animato le nostre valli se restringessimo le nostre considerazioni unicamente alla sfera economica.
Scrive Onelio Prandini nel suo volumetto La cooperazione pubblicato dagli Editori Riuniti: “Il movimento cooperativo è sorto, come i partiti dei lavoratori e i sindacati, per rispondere all’affermarsi del capitalismo”. L’intento dei fondatori – prosegue l’autore – fu “evidentemente quello di ottenere merci, beni di consumo a prezzi più convenienti e con una migliore garanzia di qualità rispetto a quelli che si possono acquistare sul mercato”.
La cooperazione si impose dunque per contrapporre un’alternativa valida ed efficace ad un ordinamento economico ritenuto iniquo, poco conveniente, dispersivo e pertanto incapace di soddisfare pienamente i bisogni dei ceti popolari.
Ma contemporaneamente il cooperativismo crebbe anche come idea-forza, come parola-chiave politica e sociale all’interno del movimento operaio organizzato, dentro i partiti d’ispirazione socialista, i sindacati, le camere del lavoro, i circoli proletari di lettura. Furono infatti le società di mutuo soccorso e le associazioni filantropiche istituite per sovvenire gli operai malati, invalidi o caduti in miseria a fornire gli essenziali punti di riferimento alla nascente impresa coopérativa. Il “mutualismo”, l’aiuto reciproco, la partecipazione dei singoli soci alla gestione del negozio o del magazzino o del forno rimasero fra i princìpi irrinunciabili di queste iniziative di pubblica utilità.
Flavio Poli, nella sua memoria universitaria che la Fondazione Pellegrini-Canevascini ha ora il merito di presentare in volume, ha cercato di risalire alle origini dell’idea cooperativa nel nostro cantone. Poli ricostruisce i primi dibattiti, rievoca l’euforia per l’ideale cooperativo che serpeggiava negli ambienti politici illuminati, dominati da personaggi come Ernesto Bruni, Giovanni Airoldi, Leone De Stoppani, Gaetano Molo. Nel Ticino le sollecitazioni e gli stimoli cooperativistici cominciarono a circolare intorno alla metà dell’Ottocento, ma purtroppo non presero mai quello slancio che invece auspicavano i giovani radicali dell’ala progressista del partito liberale. Nonostante l’opera e la propaganda dei profughi italiani di fede mazziniana, gran parte del paese rimase scettica, per non dire diffidente, nei confronti di questa originaria forma di associazionismo con fini commerciali.
Il sottosviluppo industriale e la conseguente assenza di un proletariato di fabbrica cosciente della propria forza rallentarono non poco la penetrazione di nuovi propositi cooperativi che in quegli anni mettevano salde radici sia nel Settentrione italiano, sia nelle città elvetiche d’oltralpe nella forma dei “Konsumvereine”.
Vi furono tuttavia eccezioni: nel 1867 nacque a Bellinzona, su iniziativa di un “comitato per studiare i mezzi di migliorare le condizioni degli operai”, la prima cooperativa di consumo. Ma essa rimase isolata, senza atti emulativi. Complessivamente il cantone rimaneva sospettoso e, come detto, riluttante nell’accogliere queste innovazioni dall’aria socialisteggiante. Anche voci autorevoli, come questa del canonico Ghiringhelli, caddero nel vuoto: “Lo spirito d’associazione è l’anima dei tempi moderni, esso produce i miracoli ai quali assistiamo ogni giorno, esso è chiamato a ravvivare la nostra agricoltura, l’industria, il commercio, e specialmente a emancipare il popolo dall’avvilimento e dalla miseria, e ad assicurare il soccorso all’operaio infermo ed impotente, l’assistenza reciproca fra i contadini, la diffusione dell’istruzione popolare”.
Il dibattito sulle cooperative di consumo riprenderà con rinnovato vigore solamente alle soglie del nuovo secolo. Saranno gli effetti congiunti derivati dalla ripresa economica e dall’arrivo della Gotthardbahn a rilanciare, questa volta con notevole fortuna, l’idea cooperativa nella sfera distributiva. Magazzini e depositi vennero creati a Bellinzona e a Chiasso ad esclusivo beneficio dei ferrovieri (ecco qui un esempio davvero significativo di come la ferrovia abbia favorito l’”importazione” e l’adozione di modelli provenienti d’oltre San Gottardo). Cooperative di consumo sorsero là dove l’attrattività lavorativa – nelle manifatture e nel settore estrattivo (cave di granito) – era più intensa che altrove, dove la presenza di operai italiani immigrati era elevata. Fu il caso di regioni come la bassa Leventina (Pollegio, Giornico, Lavorgo, Bodio) e della Riviera, mentre nel Malcantone il merito della diffusione dell’ideale cooperativo andava piuttosto ascritto all’opera dei filantropi e politici.
Poli ricorda pure le controversie che divamparono fra gli schieramenti politici sull’utilità o meno di simili iniziative, se danneggiassero o favorissero il commercio e i consumatori. In campo socialista, ovviamente, la questione ricorse più spesso che altrove, dato che rientrava nella strategia partitica. I militanti ticinesi, profondamente influenzati dall’atteggiamento dei socialisti italiani (perlopiù contrari all’esperimento), pronunciarono dapprima un giudizio negativo sul sistema cooperativo: lo consideravano infatti uno dei tanti “palliativi” che non avrebbero mai portato ad una società più giusta e sociale (“il benessere duraturo non potrà avvenire che con il socialismo”, scriverà enfaticamente Il Socialista nel 1898). Poi però, con il progressivo distacco dal movimento italiano e con la crescente influenza dei Konsumvereine, i socialisti ticinesi mutarono d’avviso. Nel novembre di quel medesimo anno Il Socialista arrivava già ad affermare che “il socialismo – in linea di massima – è un fatto compiuto ove esistono cooperative di produzione e di consumo, ove si sono municipalizzati o nazionalizzati certi servizi pubblici (…). Il partito socialista fa più rapidi progressi ed è più vegeto nei paesi in cui la spina dorsale del partito è formata da cooperative. Pensate al Belgio e alla Danimarca”.
Nella risoluzione approvata al congresso del Ceneri del 5 agosto 1900 (data alla quale si fa generalmente risalire la nascita del Pst), i convenuti s’augurarono la fondazione di cooperative che regolassero i prezzi delle principali derrate alimentari: ormai era l’accettazione definitiva del modello.
Gli anni compresi fra il 1903 e il 1920 segnarono un’affermazione del sistema cooperativo senza precedenti. A questo periodo risalgono le prime affiliazioni all’Usc (Unione svizzera delle cooperative di consumo, oggi Coop Svizzera) e la fondazione del giornale La Cooperazione, organo ufficiale dell’Usc e delle cooperative di consumo della Svizzera italiana (1906). Il cooperativismo, accolto fra mille indugi e sospetti, andò radicandosi sia nelle aree urbane che in quelle rurali sull’onda di un consenso sempre più ampio. Accolta e difesa dalle maggiori forze politiche del paese (dai conservatori ai socialisti: di qui il carattere interclassi sta dell’operazione), l’idea cooperativa divenne finalmente un’idea schiettamente popolare.
Fra i socialisti, a dire il vero, la soddisfazione non fu mai piena ed unanime per una sorta di riserva ideologica. Le cooperative che vedevano sorgere erano infatti “cooperative di consumo” e non già “cooperative di produzione” come essi invece desideravano. Era, questo, un postulato che veniva da lontano: “Le cooperative possono, così a grandi tratti, dividersi in due specie: di consumo e di produzione. Quelle servono ad eliminare lo sfruttamento dell’intermediario del commerciante, queste lo sfruttamento del capitalista industriale. È evidente che le cooperative di produzione devono attirarci più delle altre, perché in esse noi vediamo il “divenire” del socialismo, le forme sociali dell’avvenire già innestate nel presente. Quando poi la cooperativa sia istituita con criteri socialisti, oltre al fatto in sé di aver strappato un certo numero di operai alle zanne del capitalismo privato, racchiude una grande energia di propaganda, facilitando la stessa coll’esempio e col creare dei lavoratori indipendenti e colti” (Il Socialista, 8 ottobre 1898).
Oggi valori come partecipazione e cogestione hanno perso quella forza attrattiva che fino a pochi anni fa ancora esercitavano. Tuttavia – annota giustamente Poli in conclusione – numerosi altri compiti attendono l’impresa cooperativa nel nostro paese: il piano delle fusioni (che dovrebbe portare finalmente alla nascita di Coop Ticino), il costante miglioramento dell’offerta (in quantità e qualità) nonché la sua diversificazione, le crescenti esigenze dei consumatori, la necessità di fronteggiare una concorrenza sempre più agguerrita. E ora, potremmo aggiungere, l’orizzonte del mercato unico europeo, una sfida ormai prossima ed ineludibile.

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