IL PARTITO SOCIALISTA
NEL TICINO DEGLI ANNI ’40

Uomini, struttura e attività del Partito che fu al centro della vita politica cantonale e il principale animatore dell’antifascismo ticinese

A cura di
Pasquale Genasci | 1985 | pp. 208

Prefazione di Luigi Ambrosoli

Lo studio di Guido Pedroli su Il socialismo nella Svizzera italiana, in gran parte dedicato al Partito socialista ticinese, si fermava al 1922; questo, di Pasquale Genasci, si occupa prevalentemente degli anni quaranta ma contiene molti riscontri con le vicende di altri periodi. La storia del Pedroli era essenzialmente politica, incentrata sulla ricostruzione e sulla discussione delle scelte politiche effettuate dal Partito socialista ticinese dalla sua fondazione al 1922; il lavoro del Genasci si estende a tutti gli aspetti della vita del partito, dall’organizzazione alla stampa, dai rapporti interni tra gli esponenti di rilievo e gli indirizzi da ciascuno rappresentati alla composizione sociale degli iscritti e all’analisi dei risultati elettorali conseguiti nelle diverse consultazioni.
Il Genasci sembra scomporre il partito al quale dedica la propria ricerca in tutti gli elementi che lo compongono per verificarli attentamente uno per uno e scoprire le contraddizioni, le fratture, le lacerazioni di un’esistenza non facile, quasi sempre tormentata, fatta di successi e di insuccessi, di ascese e di cadute, di soddisfazioni e di delusioni. Questa è, del resto, la caratteristica dell’esistenza di tutti i partiti politici negli Stati a conduzione democratica, dove l’opinione pubblica è libera di esprimere le proprie scelte ed anche di cambiarle, da una occasione all’altra. Certo, in molti casi, le svolte sembrano sorprendenti: un partito crede di aver fatto bene quanto aveva promesso agli elettori la volta precedente e si trova, al contrario, seriamente punito e non sa spiegarsene le ragioni. Ma si sa fin troppo bene che non sono soltanto le scelte politiche effettuate a contare dinanzi al giudizio degli elettori: conta la capacità organizzativa di penetrare nel popolo, di far sentire le proprie ragioni, di spiegare i propri intendimenti; conta la capacità propagandistica, soprattutto la disponibilità di un ‘efficace stampa di partito che abbia una diffusione capillare.
Ecco perchè la ricerca rivolta del Genasci all’organizzazione e alla stampa è complementare a quella rivolta alla strategia e alle tattiche politiche e, insieme, questi tre elementi costituiscono la documentazione indispensabile per cercare di spiegare e giustificare i risultati elettorali.
Gli anni quaranta: dalla seconda guerra mòndiale ai primi anni successivi alla guerra, un periodo di grande attività per il Partito socialista ticinese in un momento difficile e complesso per la vita della stessa Confederazione elvetica e del Canton Ticino. Il principio della neutralità perpetua svizzera ha dovuto confrontarsi con l’esigenza della solidarietà verso i profughi, militari, politici, razziali, costretti dall’occupazione tedesca di gran parte d’Italia a rifugiarsi nell’unico territorio europeo rimasto immune dall’invasione germanica. Il Partito socialista ticinese, coerentemente con l’atteggiamento tenuto nel ventennio precedente, si è schierato a fianco degli antifascisti e delle vittime della drammatica situazione che si è creata nella vicina Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il Partito socialista ticinese si è schierato a difesa dei profughi italiani, ha aiutato in tutti i modi gli esponenti politici che dal territorio elvetico organizzavano la Resistenza in Italia. Il Partito socialista ticinese, insieme al minuscolo Partito comunista ticinese, non si è mai compromesso con il fascismo ma ha seguito una linea di coerente opposizione ad esso. La sconfitta del fascismo e la vittoria delle nazioni democratiche avrebbe dovuto costituire un elemento a suo favore e por/o, di fronte all’opinione pubblica, come l’organizzazione politica che aveva visto con esattezza lo sviluppo degli avvenimenti e aveva denunciato con largo anticipo le conclusioni alle quali il fascismo avrebbe condotto l’Italia e il nazismo l’Europa. Si poteva pensare che, come in altri Stati, un Partito socialista democratico avrebbe potuto trarre vantaggio dal coerente comportamento degli anni passati: invece, dopo un aumento dei suffragi nelle prime elezioni successive alla guerra, il Partito socialista ticinese ritornò sulle posizioni di un quindicennio prima e si trovò, inoltre travagliato da non indifferenti difficoltà interne.
Il Genasci segue con molta attenzione e con profusione di documenti questa fase e ne individua le cause, che possono sembrar quasi in contraddizione l’una con l’altra, nell’impulso ricevuto dal Partito svizzero del Lavoro (denominazione sotto la quale si nasconde il partito filosovietico) che, con promesse rivoluzionarie, riesce a penetrare tra i lavoratori e nel clima della “guerra fredda” che, attorno al 1950, induce l’opinione pubblica ad assestarsi (non soltanto in Svizzera) su posizioni conservatrici e moderate coinvolgendo lo stesso Partito socialista in una sorta di rinata “paura del comunismo”. Siamo dunque di fronte ad una situazione generale, di carattere mondiale, che influenza situazioni particolari come quella della forza elettorale del Partito socialista ticinese. Ma i “campi” d’azione s’influenzano ormai in materia decisa e costante.
Dalla lettura del libro di Genasci si ricava l’assenza, all’interno del Partito socialista ticinese e nel periodo considerato, di un dibattito ideologico degno di tale nome e rari sono anche i richiami a un vero e proprio dibattito sui programmi da presentare agli elettori e da difendere dai posti di governo conquistati. Pare che domini sempre una linea prammatistica, di totale aderenza alle situazioni così come si presentano, senza riferimento a una tavola di prinpio o a uno specifico progetto da realizzare concretamente. In un recente convegno italiano, con evidenti accenni alla situazione attuale (ma da quanti decenni dura questo stato di cose nei partiti socialisti europei?), Norberto Bobbio lamentava lo scarso rilievo che viene dato alla stessa parola “socialismo” sulla quale prendono spesso il sopravvento le aggettivazioni “riformista” e “democratico” quasi si volesse dimenticare, o collocare in secondo piano, la matrice storica e ideologica di un movimento che ha avuto un rilievo fondamentale nella storia contemporanea.
Sembra che da parte dei partiti che si definiscono socialisti ci sia, ad esempio, un adattamento, che non era certo nel loro spirito originario, al capitalismo come ad una realtà che si deve accettare e non si può più perché nei paesi in cui /’iniziativa privata è stata bandita ed è stata attuata, in forme diverse, più o meno incisive e precise, la collettivizzazione dei mezzi di produzione, si è instaurato un sistema totalitario, burocratico, le libertà dei cittadini sono state annullate. Sembra che le delusioni, che nessuno mette in dubbio o minimizza, del socialismo reale, abbia privato dei tradizionali obiettivi di fondo il socialismo ideale. Anche il discorso più semplice che un partito socialista possa fare, quello della “giustizia sociale”, passa, se non vuole essere un’enunciazione di buone intenzioni, attraverso ad alcuni interventi diretti a limitare il potere dei gruppi monopolistici e delle imprese multinazionali.
Gli anni quaranta sono stati quelli in cui questa situazione è maturata e ha trovato le sue prime solide basi; i partiti socialisti dell’Europa occidentale, sia che fossero al governo che all’opposizione, hanno impostato la loro politica sull’esigenza di inserirsi nel quadro delle forze politiche democratiche distinguendosi nettamente dai partiti comunisti. Solo in Italia le cose non andarono in questo modo perché il Partito socialista italiano, fino alla fine degli anni cinquanta, accettò un patto di unità di azione con il Partito comunista che ne condizionò assurdamente la linea politica negli anni in cui il comunismo italiano era strettamente dipendente da Mosca. Ma neppure nei paesi in cui accettarono pienamente la dialettica democratica e dichiararono di rinunciare a strategie rivoluzionarie e alla conquista con la violenza del potere, i socialisti riuscirono a consolidare la posizione di preminenza che si manifestò soltanto in alcune occasioni e per periodi abbastanza brevi. La crisi più che ventennale del Partito socialista francese, /’impossibilità dei laburisti inglesi di confermare e portare a termine il programma di nazionalizzazioni che si erano proposti dai primi anni dopo la guerra (fino alle recenti scissioni), le incertezze delle socialdemocrazia tedesca, le contraddizioni, anche attuali, del socialismo italiano stanno ad attestare le numerose ombre di un panorama che pareva aprirsi pieno di luce alla fine del conflitto.
Diceva Riccardo Lombardi che i partiti socialisti erano diventati partiti “borghesi” intendendo il termine non riferito tanto alla loro composizione sociale, cioè alla prevalenza di iscritti appartenenti alla borghesia piuttosto che alla classe lavoratrice, quanto al fatto che i partiti socialisti avevano accolto nel loro comportamento i medesimi criteri adottati dai partiti che essi, con disprezzo, avevano chiamato appunto “borghesi”. La lettura del libro del Genasci dà modo di vedere, anche nel Partito socialista ticinese, alcuni aspetti “personalistici” la cui presenza in partiti socialisti suscita perplessità. Chi predispone, ad esempio, le liste dei candidati elettorali? È corretta la formulazione preventiva di una gerarchia tra i candidati con la designazione dei capilista? E corretta, sempre per un Partito socialista, la propaganda a favore di un candidato contro gli altri? È corretto, nell’eventualità che i risultati elettorali non corrispondano alla gerarchia stabilita dal Partito, intervenire per modificare la decisione uscita dalla somma dei liberi voti degli elettori? Il caso Agostinetti, al quale il Genasci dedica un capitolo del suo libro, è sintomatico del sorgere, all’interno dei partiti socialisti, di problemi del genere al quale si è accennato con conseguenze che, anche all’esterno, non giovano all’immagine del partito stesso.
Un’altra considerazione. Non vi è dubbio che un partito (socialista o nonsocialista) debba avere un suo leader nazionale, una persona, cioè, in possesso del prestigio indispensabile per essere quasi l’immagine del partito senza però cadere nella formula leninista che al leader e al ristrettissimo gruppo dirigente demandava ogni decisione e affidava la completa attuazione della linea politica. Nel Partito socialista ticinese, il Genasci ce lo spiega molto bene, il congresso è l’organo supremo del partito al quale spetta la discussione e la decisione su tutti i problemi politici e sulla conseguente azione del partito nell’ambito cantonale come in quello federale. Il congresso raccoglie i delegati delle sezioni, cioè i rappresentanti degli iscritti al partito, della “base” alla quale si riconosce il diritto di elaborare le linee direttive dell’azione che la commissione direttiva e la commissione esecutiva avranno il compito di tradurre in pratica.
I congressi ordinari si tengono periodicamente, quelli straordinari nell’eventualità si verifichi un fatto particolarmente rilevante sul quale il partito deve pronunciarsi rapidamente. Rimangono, comunque, dei periodi abbastanza lunghi nel corso dei quali il congresso non si riunisce e gli organi esecutivi e direttivi assumono responsabilità molto più ampie di quelle che statutariamente ad essi spetterebbero nell’interpretazione della linea politica del partito. Ma gli organi direttivi ed esecutivi sono generalmente perfettamente controllati dal leader, soprattutto se esso ha il prestigio e l’ascendente che gli deriva da una lunga militanza e dal riconoscimento del contributo offerto alle fortune del movimento. È il caso, illustrato ampiamente dal Genasci, di Guglielmo Canevascini, leader incontrastato per decenni del Partito socialista ticinese, al punto da ricevere, dai congressi, una sorta di delega in bianco a guidare il partito.
È il caso, ci pare di ricavare dalla ricostruzione del Genasci, del congresso del maggio 1946, quando è in discussione, dopo la denuncia della coalizione che aveva governato il Paese negli anni difficili della guerra, la possibile intesa con i liberali-democratici, in procinto di unificarsi, per impedire che questi ultimi, di fronte al rifiuto dei socialisti, ‘si alleino con i conservatori clericali. Scrive il Genasci che
“al di là delle questioni ideologiche e filosofiche, Canevascini, che è un uomo di sinistra ma anche di potere, e per questo vuole trovarsi nelle condizioni di esercitarlo nel modo più proficuo possibile, non dimentica il discorso pragmatico”
sottolineando l’affermazione fatta dal Canevascini stesso che
“se il nuovo partito liberale-democratico che uscirà dalla fusione ci darà le garanzie necessarie io penso che non si dovrebbe rifiutare l’esperimento”
dalla quale, come ci diceva, sembra emergere la richiesta di una delega in bianco al congresso; infatti la valutazione delle “garanzie necessarie” non potrà che spettare alla commissione direttiva e in tale sede l’influenza del leader sarà senza dubbio molto più accentuata che non sul congresso rappresentativo dell’intera base dal quale si levano alcune voci di dissenso sulla proposta canevasciniana.
Il problema della collaborazione con gli altri partiti (e per altri partiti si devono intendere quelli che si collocano, nello schieramento politico, più a destra del socialista) è stato motivo di tensione e persino di scissioni in quasi tutti i partiti socialisti europei: l’esigenza, da un lato, di uscire dall’isolamento dell’opposizione non disponendo della forza parlamentare per poter governare da soli, ha comportato violenti contrasti sul/’opportunità delle alleanze, sui programmi politici che esse avrebbero potuto realizzare, sui “cedimenti” ideologici ai quali i partiti socialisti sarebbero stati inevitabilmente costretti aderendo ad intese con partiti molto diversi per matrice ideologica, per composizione sociale e per interessi dei quali assumere la difesa.
Il problema ha assunto aspetti ancora più drammatici nei paesi in cui l’esistenza del partito comunista ha costretto i partiti socialisti ad una scelta tra l’altro partito della classe lavoratrice (e non vi è dubbio, qualsiasi sia l’opinione che si ha sulla politica dei partiti comunisti europei, che essi sono partiti che raccolgono in grandissima maggioranza operai e contadini) e i partiti del/’area borghese; anche il Partito socialista ticinese si è trovato di fronte al problema di fare i conti con il Partito operaio e contadino ticinese alla fine degli anni quaranta e non poche sono state le difficoltà che ha dovuto affrontare, tra netto antagonismo e tentativi di intesa, come risulta bene dalle pagine dedicate dal Genasci a questo importante argomento. Il Partito socialista ticinese ritenne, a grandissima maggioranza, di respingere proposte di liste comuni o di inclusioni di loro esponenti nella lista socialista avanzate dal Partito operaio e contadino ticinese.
Al congresso del 12 maggio 1946 Guglielmo Canevascini aveva rilevato il comportamento infido del Partito del lavoro svizzero il quale non si peritava di attaccare, usando la calunnia e la diffamazione, i dirigenti socialisti. I partiti comunisti erano impegnati, nei mesi successivi alla fine della guerra, a trovare lo spazio necessario per la loro affermazione e ponevano ai socialisti il dilemma: o con noi, legati a noi da uno stretto patto di unità di azione, oppure non possiamo trattarvi che alla stregua di nostri avversari e sottolineare quello che, a nostro avviso, sono le vostre lacune politiche e i vostri cedimenti rispetto alla “lotta di classe”. Canevascini affermava che l’unità poteva essere realizzata attraverso il ritorno dei comunisti nelle sezioni del Partito socialista che rimaneva partito rivoluzionario nelle proprie finalità anche se era riformista nel metodo, cauto e pratico, aderente alle condizioni economiche e alla consolidata pratica democratica del paese perché, proseguiva il leader del Partito socialista ticinese, sono soprattutto le condizioni economiche che creano le sovrastrutture politiche ed ideologiche e proprio per questo anche il Partito socialista è diverso da uno Stato al/’altro come è dimostrato dalla presenza del laburismo in Inghilterra e del comunismo nel/’Unione Sovietica. In questo modo, il Canevascini confermava il suo giudizio non negativo, allora, nei confronti del/’Unione Sovietica dove le condizioni storiche avevano determinato la formazione di uno Stato comunista; l’errore che i partiti comunisti europei commettevano era quello di ritenere che la medesima struttura potesse essere trasferita fuori dalla Russia.
Quanto al/’intesa con i liberali-democratici avviata dal congresso del 12 maggio 1946, va ricordato che essa assicurò per vent’anni il governo cantonale e che ebbe, come risultato immediato, l’allontanamento dei conservatori clericali dal dipartimento del/’educazione e il suo affidamento ai radicali. Il Genasci lascia intendere che si trattò, soprattutto, di un accordo tra due “notabili”, il Canevascini e il radicale Libero Olgiati per arginare l’invadenza clericale soprattutto nella scuola e dare ad essa un indirizzo più chiaramente laico. Ma
“nel 1947 questi intendimenti generici non sono seguiti da un preciso programma d’intesa; in seguito, fino al 1963, sono gli organi direttivi del Partito ad elaborare questo documento, ancora una volta senza la partecipazione della base. Al congresso spetta unicamente decidere, ogni quattro anni, sul principio della continuazione o meno dell’alleanza di sinistra”.
La delega in bianco affidata dal congresso alla commissione direttiva di cui si parlava in precedenza viene quindi rinnovata per molti anni ed il risultato più importante dell’intesa tra socialisti e liberali-radicali fu l’approvazione, nel 1950, da parte del Gran Consiglio della nuova legge tributaria confermata dal referendum popolare promosso dai conservatori per l’abrogazione del provvedimento legislativo. Altri settori nei quali l’intesa di sinistra realizzò, secondo il Genasci, dei risultati significativi furono quelli della legislazione sociale e dello sfruttamento delle forze idriche. La conclusione cui lo stesso Genasci perviene è che
“in questa opera mi pare di poter tranquillamente affermare che Canevascini, da uomo esperto e abile qual era, sia stato capace di esercitare efficacemente la sua influenza. Il giudizio storico sul ventennio di governo radico-socialista dovrà però forzatamente essere rimandato ad uno studio approfondito e completo del periodo”,
anche se a noi pare di poter affermare che i provvedimenti approvati costituirono più un momento, sicuramente importante, di “razionalizzazione” del sistema legislativo e amministrativo del ricino che non la premessa per il passaggio ad un sistema maggiormente aderente ai principi fondamentali del socialismo.

Un ‘altra questione che emerge bene dal libro del Genasci è quella dei rapporti tra il Partito socialista e le organizzazioni di massa, in particolare i sindacati (nello studio manca, invece, il riferimento al movimento cooperativistico che nel Ticino non ha mancato di avere un considerevole sviluppo ma che, probabilmente, non ha avuto rapporti diretti con il Partito socialista) dai quali provengono quasi tutti i dirigenti del Partito che iniziano la loro carriera come funzionari sindacali per trasferirsi poi all’organizzazione politica. Per gli anni studiati dal Genasci non emergono incompatibilità tra attività sindacale e attività politica. Il caso limite è quello di Guglielmo Canevascini che, dal 1907 al 1922, viene designato alla segreteria della Camera del lavoro e negli stessi anni comincia ad essere esponente di primo piano del Partito socialista ticinese e dal 1919 al 1922 è consigliere nazionale; il contemporaneo controllo di incarichi cosi importanti per i contatti con le masse consente al Canevascini di allargare sempre più la sua influenza politica e di diventare abbastanza rapidamente il leader del socialismo ticinese. Il suo ingresso, nel 1922, nell’esecutivo cantonale lo fa diventare, da organizzatore politico e sindacale, uomo di governo e come uomo di governo è indubbio che egli saprà dare prove di primissimo ordine.

Tra le pagine più significative della biografia canevasciniana occorre ricordare quelle relative alla sua inflessibile milizia antifascista e al suo impegno non solo di attestare la solidarietà nei confronti di chi era stato costretto all’esilio dal regime mussoliniano, ma anche di intervenire con il suo peso politico e con quello del partito che rappresentava perché il governo federale o quello cantonale rimuovessero eventuali ostacoli all’accoglimento dei fuorusciti. È sufficiente leggere quanto scriveva Pietro Nenni nel suo diario, in data 24 gennaio 1943, riferendosi ai mesi precedenti il suo esilio e ricordando la scomparsa di Amilcare Gasparini (del quale Genasci parla come uno dei maggiori esponenti del sindacalismo e del Partito socialista ticinese): “A Lugano è morto Amilcare Gasparini […] Nel ’26, prima del mio espatrio, più di una volta condusse Friedrich Adler al Monte Generoso che io raggiungevo da Casasco d’Intelvi. Per non insospettire il posto di frontiera, salivo al Generoso con le bambine. Il buon Gasparini ci aspettava, le tasche piene di cioccolatini. A quegli incontri partecipava qualche volta Guglielmo Canevascini, che doveva diventare poi uno dei nostri migliori amici nell’esilio”. (Pietro Nenni, Vent’anni di fascismo, a cura di Gioietta Dallò, Milano, A vanti!, 1964, p. 462).
Un’altra testimonianza riguarda gli interventi a favore di un fedelisismo di Cesare Battisti, Carlo a Prato, sollecitati dal repubblicano Egidio Reale: “[Carlo a Prato] uomo di fiducia di Carlo Sforza, era a Ginevra l’uomo meglio informato di tutti su tutto e senza dubbio il più odiato dai fascisti. Era il più detestato da Berna, e più esattamente dal consigliere Motta, filofascista e clericale, che alla fine riuscì a farlo espellere dalla Svizzera. Per anni e anni Egidio Reale, con l’aiuto degli amici ticinesi Canevascini, Rusca ed altri, mise in opera a Berna tutta la sua pazienza e abilità giuridica per ritardare la sua espulsione, ma nel 1937 non poté più evitarla” (Armando Zanetti, L’esilio ginevrino, in Egidio Reale e il suo tempo, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 115).
L’episodio più noto della collaborazione del Canevascini e dei socialisti ticinesi con gli antifascisti è quello del volo Bassanesi: la storiografia italiana ha posto in luce da Aldo Garosci (Vita di Carlo Rosselli, Roma, Edizioni U, 1945, p. 213) a Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira (Storia d’Italia nel periodo fascista, Torino, Einaudi, 1956, p. 611) il contributo offerto alla realizzazione dell’audace iniziativa dai socialisti ticinesi. Infine, non può essere dimenticato il periodo della “grande fuga” degli italiani in Svizzera, dopo 1’8 settembre 1943: gli interventi di Canevascini non si contano più, a cominciare da quello del 17-18 settembre per far liberare gli esponenti socialisti Lucio Luzzatto e Rodoljo Morandi, fermati dalla polizia di frontiera a Mendrisio (Aldo Agosti, Rodolfo Morandi: il pensiero e l’azione politica, Bari, Laterza, 1971, p. 355). Ma sulle iniziative a favore dei profughi politici e militari e sull’appoggio concesso ai rappresentanti dell’antifascismo italiano e alla loro azione politica dal settembre 1943 all’aprile 1945 non resta che rimandare, oltre al libro di Carlo Musso ricordato dal Genasci, all’altro di Elisa Signori, La Svizzera e i fuorusciti italiani. Aspetti e problemi dell’emigrazione politica 1943-1945, prefazione di Giovanni Spadolini, Milano, Franco Angeli, 1983.
Sempre per la biografia del Canevascini, ci pare importante per la definizione politica dell’uomo fin dai primordi della sua attività, l’atteggiamento assunto nel 1914-15 durante il periodo della neutralità italiana; egli infatti si schierò a favore dell’intervento italiano insieme al gruppo di “Libera Stampa” che faceva capo a lui, a differenza di quanto facevano il Partito socialista ticinese e il Partito socialista svizzero, entrambi neutralisti. Canevascini non partecipò alla conferenza italo-svizzera di Lugano del 27 settembre 1914 (Protocollo della conferenza italo-svizzera di Lugano, a cura di Aldo Romano, in “Rivista storica del socialismo”, a. VI, (1963), p. 94) poiché non ricopriva incarichi ufficiali nel partito ed era anzi in posizione di dissenso con i dirigenti. Scrive Leo Valiani (Il Partito socialista italiano nel periodo della neutralità
1914-15, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 44): “Libera Stampa” era l’organo del Partito socialista ticinese che, per dissensi organizzativi, il Partito socialdemocratico svizzero (con il quale il PSI solidarizzava) non voleva riconoscere e che, nel 14, sotto la guida di Guglielmo Canevascini, simpatizzava apertamente, esso SI: con le democrazie occidentali”. In realtà questa ricostruzione del Valiani contiene qualche inesattezza: “Libera Stampa” non era organo del PST ma era sorta in contrapposizione con la sua politica, cosi come il Canevascini si trovava in contrasto con il gruppo dirigente del PST guidato da Mario Ferri. Il quale ultimo era allineato alle posizioni del PSS. L’interventismo del Canevascini, comunque, non si accostava tanto a quello de “Il Popolo d’Italia” mussoliniano, come scrive il Genasci, quanto a quello, di matrice senza dubbio democratica, ispirato dall’esigenza di raccogliere tutte le forze preoccupate della salvaguardia delle libertà per impedire il successo dell’imperialismo germanico al quale si attribuiva l’obiettivo di imporre all’Europa la propria supremazia; all’interventismo democratico, ben distinto da quello nazionalista (i nazionalisti, in un primo tempo, puntarono sull’intervento a fianco della Germania), aderirono uomini di formazione socialista come Cesare Battisti e Salvemini.
Fin dal 1914 emergeva, dunque, in Canevascini, la convinzione che fosse necessario, prima di tutto, salvare le istituzioni democratiche, convinzione alla quale si manterrà fedele durante l’intera sua vita politica come è attestato dalla fermissima, intransigente opposizione al fascismo che temeva potesse trovare consensi, come in realtà li trovò, in alcuni ambienti politici svizzeri. Se nel 1914-15 egli fu su posizioni diverse da quelle dei socialisti ufficiali italiani, ciò non gli impedirà, non appena sorgerà la minaccia fascista, di mettersi al loro fianco e di aiutarli a superare le difficoltà politiche e umane in cui si dibattevano di fronte alla volontà mussoliniana di cancellare le istituzioni democratiche e le libertà civili.
Grande democratico, dunque, il Canevascini in anni in cui, non solo in Italia e in Germania, ma in tutta l’Europa e nella stessa Svizzera, la democrazia stava correndo incredibili rischi. Ma anche dopo la fine della guerra e il crollo del nazismo e del fascismo, negli anni quaranta cosi attentamente studiati dal Genasci, le difficoltà politiche generali condizionarono l’azione, in senso più decisamente socialista, del Canevascini e del Partito socialista ticinese. Un periodo molto complesso che esige ancora analisi e approfondimenti da parte degli storici.

Acquista il volume

Potete richiedere questa pubblicazione contattando il segretariato della Fondazione